Recensione di Point Break | This is not a remake
Recensione di Point Break di Ericson Core con Édgar Ramírez, Luke Bracey, Ray Winstone: l'originale rimane come traccia di fondo, in un film dai semplici simbolismi in cui dominano alcune delle migliori scene d'azione degli ultimi tempi
Non poteva non far storcere il naso ai più l’idea di un remake di Point Break: il film di Kathryn Bigelow con Keanu Reeves è cult intoccabile, ed infatti non è stato toccato, ma semplicemente omaggiato e citato.
Questo “nuovo” Point Break non sceglie la strada del remake pedissequo, né quella del semplice update 2.0, distaccandosene sia dal punto di vista della narrazione che da quello formale, optando per un’azione forsennata su scala mondiale. Dell’originale, che infine rimane unicamente come traccia di fondo, vengono conservati alcuni principi, presi ed elaborati fino a diventare oggetti giganteschi ma non più complicati. Delle dimensione (spaziale, caratteriale) neo-noir del film del 1991 rimane poco: lo sceneggiatore Kurt Wimmer (che già aveva detto la sua con il remake spurio di Atto di forza) porta ad espansione un intero immaginario fino a renderlo quasi irriconoscibile, tramutandolo in qualcosa di meno articolato ma capace di una confezione completa e soddisfacente.
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È chiaro dalle prime scene quanto il progetto voglia e debba avere una dimensione più astratta e meno cruda: motocross e rapine volanti, onde in cgi gigantesche, fight club parigini, free climbing, skydiving, i cinque continenti, otto prove da affrontare; il tutto contornato da momenti filosofeggianti, dando all’intera vicenda una connotazione metaforica (emblematica la scena della rapina all’aereo cargo), assolvendo da subito ogni crimine, in una struttura del tutto simbolica in cui l’indagine sotto copertura è unicamente un pretesto.
Questo Point Break sviscera una morale assai meno complessa e contraddittoria di quella del primo film, premurandosi di ricordarla ogni volta che può, quasi volesse nobilitare la propria componente action: indulgente sulle umanità, seguendo una logica più puerile basata principalmente su un egotismo naturalistico dalla sfumature anarcoidi, prende l’ideale ascetico e olistico e lo mette al centro di uno schema determinato e preciso, da osservare nella sua spettacolarità, senza un autentico conflitto, in una carrellata worldwide di sport estremi in cui l’agognato Nirvana fisico e mentale diventa movente inappuntabile. È l’animo sportivo amplificato, quello alla base, tra sforzo estremo e assoluzione di se stessi rispetto alla natura: altro non dice e altro non vuole dire, Point Break, con il suo ragionamento iconico.
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Con evidente conoscenza tecnica (nasce come direttore della fotografia), al regista Ericson Core vanno il merito di saper prendere la parte più spirituale e di inserirla in un’atmosfera sempre coesa che tratta sia le scene di semplice dialogo come quelle d’azione alla stessa maniera, e quello di dotare l’intero film di un livello spettacolare sempre ad alti livelli (la sparatoria con i carabinieri(!) dice tutto al riguardo), sporco ed ordinato allo stesso tempo, coerografico e cupo. Se gli antagonisti tali non sono, la monumentalità concessa dalle ambientazioni e dalla cgi raggiungono un impatto visivo capace di battere quello della maggior parte dei film ad alto budget. Non avendo da insistere sulle sfumature caratteriali, il lavoro s’incentra sul dettaglio, sulla bellezza in senso stretto del momento, della performance, dell’immersione visiva e cinetica; il tutto senza una sbavatura o una caduta di stile, impedendo a qualsiasi tamarrata possibile di intromettersi.
La perfezione del quadro va quasi a corrispondere con quella ricercata dai personaggi: una rapporto tanto semplice quanto difficoltoso da mettere in scena, che rende questo Point Break un film autonomo e soddisfacente, fluido, amabilmente action.
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Voto della redazione:
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