Terza parte di uno studio cinematografico e riflessione storica, geografica, culturale e sociale di un film, Gli amici di Georgia (1981) di Arthur Penn, e di un'epoca, quella americana dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta
Affascinato dalla mitologia rural-industriale di un film come Il gigante [Giant, 1956, di George Stevens] e, in particolare, dalla figura carismatica e contro le regole - sul set come nella vita - di uno dei suoi attori principali, il texano Terrence Malick esordisce alla regia nel 1973 con un film che, significativamente, è ambientato retroattivamente negli anni Cinquanta e in cui il protagonista, privo/privato di autentici modelli culturali e sociali, “è costretto” a ostentare facili atteggiamenti alla James Dean. Una generazione lentamente privata della possibilità di avere una propria, decisa identità finisce per rifugiarsi nei mezzi di comunicazione di massa (la televisione, sempre più), strumenti asettici e impersonali ai quali è comodo affidare fiducie e sorti esistenziali. La Georgia dei “quattro amici” di Arthur Penn, che pure è donna mobile e vitale, è talmente insicura di sé e del suo futuro da avere, in tutti i campi del vivere, una sola certezza: essere - utopia folle e per questo massimamente struggente - la reincarnazione di Isadora Duncan.
Un percorso simile, anche in campo artistico, sposta inevitabilmente l’ago della bilancia: dal personale si passa all’astratto, dall’umano all’elettronica – è di quegli anni, la fine dei Settanta, il massimo sviluppo della new wave, anche in campo musicale. Perso progressivamente il contatto con la realtà, non resta che trasferire il centro delle attenzioni sulle singole individualità umane, sulla loro dimensione prettamente intima, minima. Anticipata in letteratura, come ormai è unanimemente riconosciuto, da un illuminato del pari di Raymond Carver, la corrente del minimalismo inizia a farsi spazio con sempre maggiore frequenza, andando forse a completare, in maniera narrativamente più armoniosa, il ciclo vitale delle esperienze underground - e un cineasta come Abel Ferrara, formatosi da completo autodidatta, ne è forse la prova più schiacciante. Magari con sempre meno voglia di sperimentare nuovi linguaggi, tuttavia con la stessa frenesia di liberarsi da vincoli, dialettici ed estetici, di mercato: è il caso di Amos Poe, di Slava Tsukerman, ma anche di John Sayles e, poco più avanti, di Denys Arcand e poi di Hal Hartley. Se l’idea di cinema inteso come gigantografia bigger than life di una realtà in crisi e già in incontrollabile espansione stava inesorabilmente tramontando (è del 1980 lo spaventoso collasso de I cancelli del cielo [Heaven’s Gate] di Michael Cimino, mentre negli stessi anni c’era chi - Coppola, Scorsese, Altman - si imbarcava in progetti più piccoli e forse più personali e chi - Malick, Peckinpah, Ashby - scompariva di scena) e se poi la televisione, anche dal punto di vista estetico, stava diventando il modello di riferimento sempre più influente[1], il cinema puntò a tornare, sempre con rielaborazioni stilizzate e astratte degne della sensibilità contemporanea, al pauperismo dei primordi: evidenzia di amare il bianconero e la poetica del cinema muto, soprattutto comico: da Buster Keaton alle slapstick comedy, un alfiere del cinema indipendente e minimalista quale Jim Jarmusch, formatosi su amori cinefili europei ma attento a dislocare le proprie passioni in territori a lui noti e congeniali, i sobborghi metropolitani soprattutto. Rimpicciolendosi la prospettiva d’insieme, tutto è destinato a relativizzarsi di conseguenza: il classico romanzo di formazione, per esempio, che soltanto qualche anno prima aveva permesso la realizzazione di magniloquenti epopee sull’amicizia (Il cacciatore, Un mercoledì da leoni [Big Wednesday]), si orientò pertanto allo sviluppo in interni, da kammerspiel. Il trionfo delle psicologie umane, a detrimento di un cinema tutto sommato tendente alla rivoluzione sociale, permise un “rimpicciolimento” anche ideale che, in alcuni casi, col tempo, ha reso le opere precocemente datate o meno perspicaci e originali di quello che, all’epoca della loro uscita, avevano dato l’impressione di essere. Anche un film di culto come Il grande freddo [The Big Chill, 1983] di Lawrence Kasdan, in realtà anticipato da un film indipendente inedito in Italia (Return of the Secaucus Seven, 1979, di John Sayles) e poi malcelato ispiratore di innumerevoli epigoni e derivazioni (anche molto a latere: Compagni di scuola di Verdone, probabilmente), analizzato da questa prospettiva logica, a mio avviso rischia di uscire un po’ frastornato; sicuramente ne emerge il suo lato prettamente di testa, sempre più intellettuale e autore-centrico (laddove, invece, i personaggi del cinema di un decennio precedente parevano vivere di vita propria ed essere, questo sì neorealisticamente, semplicemente pedinati in maniera più o meno rigorosa, a volte cialtronesca, quasi sempre irresistibilmente imprevedibile), di contro al calore con cui, negli anni Settanta, si sapeva trasmettere una visione del mondo e un senso della vita.
È proprio in un momento di simile critica transizione che, a mio avviso, un film come Gli amici di Georgia (1981) rappresenti un evento epocale, e forse irripetibile, della e per la cinematografia statunitense. Sembrerà paradossale arrivare a una conclusione così stentorea visto che, di fatto, questo film di Arthur Penn non fu baciato dalla buona sorte né al botteghino né, all’epoca almeno, da parte della critica: nato e sviluppatosi in sordina, e presto scomparso dalla circolazione o raramente ricordato, Gli amici di Georgia testimonia in tutta la sua durata le correnti di pensiero e la pratica filmica di quegli anni di incertezze e ambiguità. “Un’esplorazione sul tempo continuo e discontinuo”, l’ha definito lo stesso regista, “la prima dopo Piccolo grande uomo” e dopo il relativo impasse degli anni Settanta durante i quali, umilmente, “non sapevo come cogliere di nuovo la realtà, vedevo gente come Altman e Coppola che lo facevano, e questo mi disorientava. Non capivo più quello che mi interessava al cinema, ed è per questo che ho girato Bersaglio di notte e Missouri: per ritrovare la sicurezza dei generi tradizionali”[2]. Ascrivibile, infatti, al sentimento minimalista cui ho accennato in precedenza, e quindi ben conscio di rappresentare parte del cinema del nuovo decennio in corso, Gli amici di Georgia è tuttavia ancora intimamente legato a una concezione ‘spettacolare’ di rappresentazione di esistenze quotidiane, marginali, minime che, imparentandolo con le dinamiche artistiche e produttive degli anni Settanta, lo rende un ideale ponte sospeso fra due epoche col senno di poi antitetiche, due stagioni cinematografiche lontane (anche se, ovviamente, conseguenti), due modalità di rappresentare la realtà - o certa realtà - strutturalmente differenti. “Film-summa che ricapitola i grandi temi della sua carriera e insieme film-testamento che chiude un periodo creativo forse irripetibile (per il regista ma anche per il cinema americano), Gli amici di Georgia continua ad apparirci, a vent’anni dalla sua realizzazione, come una delle riuscite maggiori di Penn, quella dove il confronto tra storia sociale e spinta individuale - ben presente in tutta la sua opera - trova la sua più compiuta affermazione e rappresentazione”, conferma un entusiasta Paolo Mereghetti[3]. La modernità, o meglio l’attualità, di un film come Four Friends sta tutta nell’equilibrio che soggiace all’opera: sapendo cosa narrare, e soprattutto sapendo dove andare a parare, Penn adatta anche la possibile forma, rendendo omogenee diversità stilistiche e apparenti incongruenze. È uno strano film, Gli amici di Georgia, e difficilmente catalogabile: non parla di un genere con il linguaggio di quel genere, né mai Penn intenderà farlo del resto, ma affronta anche dal punto di vista dello specifico della visione il percorso di maturazione - intellettuale ed emotivo - di cui i suoi personaggi sono vittime e responsabili.
Strano cineasta, del resto, è Arthur Penn, impermeabile ai generi (pur affrontandoli anche direttamente) e imprevedibile nella sua autorialità sfuggente, “il più europeo dei grandi americani. A questa fama ha contribuito, più che una specificità autoriale, che può tuttavia essere sempre rivendicata, la capacità nel far emergere un marchio tipico, e quindi riconoscibilissimo, pur nelle produzioni imponenti, una straordinaria capacità di equilibrio nella transazione dalle grandi mitologie al quotidiano più minuto, spesso sapientemente intrecciati”. Equilibrio, appunto: non c’è dubbio che Penn, grazie a questa prerogativa capace di sbocciare laddove c’è consapevolezza e umiltà, come prosegue Martini nella sua introduzione a un interessante studio sulla sua figura e sulle sue opere[4], “è stato uno dei registi americani che meglio ha saputo raccontare, e spiegare, il proprio paese (le crisi di crescita, come le speranze o i fallimenti) e i problemi esistenziali dei propri connazionali”. Cineasta umano e appassionato dei casi umani, tanto a teatro (dalla cui esperienza deriva certo una particolare sensibilità nella direzione degli attori) quanto sul grande schermo regolarmente praticati con lo stesso entusiasmo e la stessa indipendenza, Penn ha saputo trattare, con messinscene critiche e anche per questo morali, “temi quali violenza, sesso, morte – ma soprattutto solitudine – […] attraversando gli studios, rispettandone le leggi, sfruttando le potenzialità espressive offerte dalle grandi macchine hollywoodiane e confrontandosi in maniera attiva con i più grandi interpreti: i miti dello star system, soprattutto maschile”[5].
Un universo coerente e rigoroso, pure con le estreme libertà che il suo statuto intellettuale gli ha sempre permesso (in tal senso, credo basterebbe ricordare le digressioni allucinatorie, ma sempre riconducibili all’interno di una realtà ben enucleata, di un film sulla paranoia come Mickey One), che trova stimoli e fondamenta nell’uomo prima che in ogni altra cosa. Accogliendo nel suo bacino di interesse personaggi che rappresentano tentativi - spesso utopici ed elitari - di opposizione alle forme dell’esistenza borghese o che testimoniano una disperata ricerca delle (proprie, quindi altrui) radici storiche, Penn è sempre partito dal singolo dato umano per arrivare a un allargamento sociale della sua condizione, del suo valore, della sua etica. Tema privilegiato di Penn è “la ricerca dell’identità da parte dell’individuo, che cerca di attirare su di sé l’attenzione ricorrendo spesso a gesti estremi e violenti”[6].
Note
[1] Non è certo un caso, dunque, che un “vecchio” leone del minimalismo americano come Jim Jarmusch la recuperi come mezzo di espressione/alienazione nel suo recentissimo, e alterno, Broken Flowers.
[2] Rif. Michel Ciment, Entretien avec Arthur Penn, in “Positif” n. 252, marzo 1982
[3] Paolo Mereghetti, I sogni di Danilo, in Leonardo Gandini (a cura di), Arthur Penn, Editrice Il Castoro, Milano, 1999, p. 87
[4] Andrea Martini, Introduzione, in Ivi, p. 7
[5] Ibidem
[6] Robert Müller, «Through a glass darkly» Motivi ed estetica nel cinema di Arthur Penn, in Ivi, p. 53
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